Paura. È questa la sensazione che sempre più spesso aleggia nei discorsi tra genitori, nelle espressioni, negli sfoghi e nei racconti sulle esperienze con i figli. Paura per alcuni loro atteggiamenti e comportamenti, paura che nella loro crescita qualcosa vada storto o come non era previsto o sperato; paura, fondamentalmente, che l’idea di figlio ideale non si realizzi, che nostro figlio non ci ami abbastanza, che la società non ci riconosca come madre e padre giusti ed efficaci.
Da dove nasce questo nuovo atteggiamento genitoriale? Numerosi studi1 hanno affrontato questo tema e le ragioni individuate sono molte. La generazione attuale è l’ultima allevata con metodi autoritari e decisi, che con i propri figli ha deciso di instaurare un rapporto più accudente, vicino e complice. I figli sono pochi, spesso molto attesi e messi al centro della propria vita e di quella della famiglia allargata con modalità senza precedenti. Costituiscono quindi una ragione di affermazione e di autorealizzazione notevole. Ci rappresentano. Rappresentano la nostra bontà di educatori e di persone, ma anche un nostro riscatto. Senza volerlo e senza rendercene conto, infatti, siamo a volte molto esigenti nei loro confronti, ci spaventiamo se vediamo in loro qualche atteggiamento che è reputato non corretto, anche se lo riconosciamo come tipico di una fase di crescita o se lo ricordiamo come appartenuto anche a noi. Ma questo non basta per rassicurarci: i nostri figli devono essere migliori di noi, perfetti in quanto amati e seguiti in modo perfetto, perfetti in quanto accontentati in tutto ciò che desiderano.
Tutto ciò incide profondamente sul tipo di relazione che si crea tra genitori e figli e sul modo di guardare alla loro apertura al mondo. Oggi, grazie al fatto di essere molto più informati e maggiormente consapevoli, rispetto al passato, del valore dell’ascolto e del rispetto per i figli, i genitori tendono ad applicare all’estremo queste modalità, facendo quindi una specie di passo indietro rispetto al proprio ruolo, a favore di una relazione paritaria, in cui è considerato centrale l’equilibrio delle esigenze e delle richieste emotive del figlio, che tendono appunto alla costruzione di un “figlio ideale”.
Il “figlio ideale” di oggi, normalmente, corrisponde ad un modello abbastanza preciso: deve essere socievole ed estroverso, sincero e trasparente, deve avere molti amici, essere sportivo, ma non agonista o ambizioso; deve essere molto bravo a scuola, ma non troppo studioso a discapito della vita sociale, ubbidiente, mangiare sempre e il giusto, essere esente da sentimenti considerati negativi quale l’aggressività, l’indolenza, il consumismo, deve crescere forte e sicuro, senza cedimenti o colpi di testa e, soprattutto, deve sempre essere sereno e felice.
È evidente che un tale programma facilmente sarà disatteso dalla realtà, perché il figlio potrà avere moti di aggressività, a scuola potrà non essere bravissimo, e forse non sarà uno sportivo, oppure attraverserà dei momenti di difficoltà, di ribellione, di apatia, avrà insomma contrattempi e ostacoli nella sua corsa verso la persona ideale che i suoi genitori sognano.
Come affronta il genitore queste situazioni, questi scostamenti dal percorso stabilito e sereno, pensato e vagheggiato? La prima reazione è una sorta di incredulità mista a delusione; non disappunto, delusione per quello che sta avvenendo nonostante tutti gli sforzi fatti per evitarlo. Il cedimento, l’inciampo sono immediatamente visti in modo assoluto e predittivi di un analogo futuro e – ancora – spia di un nostro personale “fallimento” come educatori. Si fa fatica a contestualizzare certi eventi e ad inserirli come episodi nell’ambito di una esistenza lunga e articolata, ma immediatamente si tende a considerarli permanenti. Quindi ci si deve attivare per eliminare questa ombra, per rimuoverla, per cambiare subito la situazione.
La seconda reazione è l’immediata ricerca della causa, di ciò che ha comportato questo scostamento. Si tende spesso a ritenerla esterna ed indipendente da noi e naturalmente da nostro figlio, ad identificarla – a seconda dei casi – nel mondo e nella società: possono essere i modelli della televisione, le pressioni della rete e delle sue tentazioni, la scuola inadeguata e i professori che non capiscono, o le cattive compagnie, le abitudini dei genitori degli altri, ecc.
In questo modo manifestiamo e alimentiamo diffidenza e preoccupazione verso tutto ciò che sfugge al nostro controllo diretto: la scuola, gli amici, la vita fuori dalla famiglia. E il comportamento genitoriale si adegua a queste nuove paure. La tentazione di proteggerlo da tutto ciò che potenzialmente potrebbe essere fonte di pericolo è fortissima. Il genitore tende ad intervenire in prima persona a rimuovere ostacoli e ad alzare steccati protettivi nei confronti dell’esterno.
Ci sono momenti topici che esemplificano bene questo atteggiamento. E coincidono normalmente con le fasi di crescita, quando il contatto con il mondo esterno si fa più evidente e quando riconosciamo in nostro figlio un’aspirazione a crescere e recepire gli stimoli esterni: i passaggi ai diversi cicli scolastici, lo sport agonistico, le richieste di libertà e di autonomia, le contestazioni dello stato di fatto.
Reagiamo, quindi, con difficoltà alle sue istanze di crescita e affrancamento dalla famiglia. Ci sentiamo delusi da una bugia o dal non essere messi a parte dei suoi sentimenti, oppure se le sue aspirazioni non corrispondono alle nostre e a quelle che ci aspettavamo per lui. Viviamo come affronti personali i loro silenzi o i loro musi o le loro ribellioni.
Nello stesso tempo, quando nostro figlio ci appare deluso o triste o preoccupato ci allarmiamo e facciamo di tutto per renderlo apparentemente sereno e felice, evitando tutto ciò che può comportare delusione o difficoltà.
Il timore, quindi, e l’incapacità di tollerare la loro sofferenza o il loro disagio o il loro contingente fallimento, ci spingono a tentare di accontentarli e a soddisfare – per quanto è possibile – le loro richieste, ma costringendoci a venire a patti con le nostre paure.
Gli esempi sono molti: se vogliono navigare in internet, mettiamo in piedi sistemi efficacissimi che tengano sotto controllo la loro attività; se vogliono uscire con gli amici o la sera, li scortiamo da vicino insieme agli altri genitori; controlliamo con metodo le assenze scolastiche e i voti anche grazie alla complicità della istituzione che dell’informazione alla famiglia e del controllo dei ragazzi, in maniera a volte molto incisiva, è spesso entusiasta promotrice. Sembriamo pronti a coglierli in fallo, certi che sbaglieranno qualcosa.
Questo modo di crescere i figli senza farli crescere davvero, cioè di concedere apparentemente delle libertà, ma prive di spazi davvero personali nell’organizzazione e nella gestione, con il carico di responsabilità che comporta, è una caratteristica dei genitori di oggi, combattuti tra l’ansia di controllare e la paura di non accontentare. Questa insicurezza educativa è legata anche all’incapacità genitoriale di essere coerenti con ciò che si vorrebbe comunicare, riuscendo quindi a sostenere le conseguenze – in termini di conflitto – di una scelta non condivisa dai nostri figli.
Guardando da fuori questi atteggiamenti viene da chiedersi come mai i nostri figli godano di così poca fiducia da parte nostra. In genere la risposta è: “Io mi fido di mio figlio, ma non mi fido degli altri, del mondo là fuori, degli incompetenti, dei pericoli”. In realtà, a ben vedere, non riteniamo i nostri figli capaci di far fronte a tutto questo, non pensiamo che abbiano le risorse per dire “no” se serve, per affrontare un insuccesso e rialzarsi, per avere un passaggio a vuoto, sociale o emotivo, interiore e riprendersi, senza che la vita ne sia segnata in negativo, ma che questa momentanea difficoltà, invece, possa tradursi in esperienza sulla quale costruire sé stessi e la propria identità.
È difficile guardare con distacco ai propri figli, ma è fondamentale dare loro fiducia e gli strumenti per comprendere la realtà, sapere scegliere e assumersi le conseguenze delle scelte fatte. Un genitore deve essere un punto fermo, un riferimento, una fonte di conforto, di informazione e di sostegno. Deve esserci e accogliere anche quando – e soprattutto quando – il percorso della vita trova intoppi e deviazioni, senza aspirare a rimuovere tutti gli ostacoli e a spianare la strada, ma costituendo una base sicura dalla quale ripartire. Certi che ce la faranno, nonostante tutto.
1 G. Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza 2009
C. Thompson, Genitori che amano troppo, Mondadori 2009