Il bambino e l’autostima

Avere coscienza di quello che si è, capire ciò che si prova e riuscire a esprimerlo liberamente senza essere offensivi, accettare i propri limiti, capire di essere amati per se stessi e non per quello che si fa.
Chi non vorrebbe tutto questo per i propri figli? Questi sono i fattori che comunemente definiscono l’autostima. Qui però non si vuole dissertare sulle molteplici definizioni, ma capire come fare perché un bambino abbia coscienza di quello che è e sappia affrontare le situazioni senza la paura di non essere all’altezza.

Secondo Jesper Juul [1], l’autostima è la conoscenza e l’esperienza di quello che siamo, è una qualità esistenziale che si può esprimere con la frase “mi sento bene perché esisto!”. Chi ne è privo, viceversa, è costantemente incerto, critico verso se stesso e accumula sensi di colpa.
Non è propriamente fiducia in se stessi, o autoefficacia, la quale misura ciò che riteniamo essere in grado di fare. I concetti sono connessi ma non interscambiabili. Ad esempio, chi ha una sana autostima è molto probabile che abbia fiducia in se stesso, ma il viceversa non è poi così scontato. Un bambino con autostima, per esempio, non reagirà male se non riesce in qualcosa, piuttosto prenderà atto che non ha particolare disposizione per quell’attività e reagirà con equilibrio.
Da tutto ciò si evince che la costruzione nel bambino di una buona percezione di sé, coinvolge ogni momento della relazione genitore-figlio e inizia da subito, fin da quando il figlio è neonato e cerca di farsi capire con il pianto. Un bambino amato e prontamente accolto in quelli che sono i suoi reali bisogni costruisce già la sua prima relazione, quella col genitore, che gli consente di percepire che lui esiste in quanto persona, e che è amato per questo.

Certo, non è semplice; tutti i manuali, da Gottman [2] a Jesper Juul, analizzano il rapporto genitore-bambino dando una serie di consigli utili, ma che spesso si rivelano fallimentari di fronte al crollo della nostra autostima come genitori e come persone.
La teoria dell’intelligenza emotiva è nota: mai dire “tu sei”, “tu fai o non fai”, bensì occorre concentrarsi sull’azione e sui comportamenti , e sulle sensazioni che l’azione da a noi, “Sento che …”, “quel tuo comportamento mi disturba..” .
Jesper Juul, invece, focalizza l’attenzione sull’io del genitore: “Io voglio che tu ….”. Non è vero che, come dice il proverbio, l’erba voglio esiste solo nel giardino del re: il verbo volere stabilisce l’identità e il confine della propria integrità. Juul inoltre separa quella che è la percezione del saper fare da quella del valere come “essere”.
Significativo l’esempio in cui consiglia di non lodare eccessivamente un disegno o un’abilità del figlio quando questi ricerca solo attenzione e non approvazione. A tutti sarà capitato di tornare a casa la sera dopo una giornata pesante, e di vedere il proprio bimbo o bimba corrergli incontro per mostrargli l’ennesima creazione. A ogni genitore a quel punto viene spontaneo lodarlo incondizionatamente, eppure quasi sempre il bambino non vuole dire “guarda come sono bravo”, bensì vuole semplicemente affermare “guarda che ci sono”. Allora in quel caso il bel disegno passa in secondo piano, e diventa invece importante guardarlo negli occhi, sorridergli e dire “sono contento di vederti”. Un altro esempio citato da Juul fa effetto per la sua attualità e perché è disatteso dai più. Un bambino che aiuta in casa spesso riceve una paghetta, è trattato, cioè, come un dipendente, instaurando così un rapporto obbligato che si riflette in un “faccio così e tu mi dai ….”, quando poi nelle relazioni gratuite d’amore, l’aiuto lo si dà volentieri senza chiedere nulla in cambio. Sembra difficile crederlo, ma in relazioni in cui c’è rispetto l’aiuto è gratuito e, la maggior parte delle volte, spontaneo.

Questi sono solo esempi che non sempre incontrano la nostra buona disposizione d’animo, troppo spesso si è presi dalla stanchezza e dalla frustrazione. Il bambino rovescia l’ennesima tazza di latte, lascia le scarpe in giro, picchia la sorella e le dice “scema” e la pazienza scivola via. Ma i risultati non si vedono a breve, è la fiducia verso di loro che ci deve essere sempre, è quella che sentono e capiscono.
E la manifestazione di questa fiducia passa naturalmente attraverso l’ascolto di quello che loro sono e delle loro emozioni. Questo comporta l’accettare tutti i loro sentimenti, anche quelli negativi: com’è possibile, infatti che un bambino non si senta “fuori posto” se quando nasce un fratellino gli si manda il messaggio che essere gelosi è sbagliato?

Occorre poi credere alle loro sensazioni, senza per forza imporgli le nostre. “Tu cosa pensi di…”, non è perché sono piccoli che non sono in grado di avere sensazioni ed emozioni. Non sono capaci ancora di dare un nome a quello che provano, e in questo è fondamentale aiutarli.

Far tutto questo non vuol dire abdicare all’autorevolezza di genitori: al contrario, spesso sono i genitori più permissivi a non ascoltare i reali bisogni, accontentandosi della prima richiesta del figlio. Un gioco al supermercato può voler dire stanchezza più che capriccio, cedere alla richiesta può essere interpretato come “non mi interessa come ti senti, ma fa’ pure quello che vuoi!”. Non serve elencare tutti gli innumerevoli casi che ci capitano quotidianamente e che mettono alla prova la nostra capacità di ascolto e di rispetto verso nostro figlio.
Non servono neppure norme asettiche e generali, ricatti o punizioni. Dobbiamo ritrovare noi stessi, per primi, quella capacità di ascoltarci e di conoscerci; rinunciare a quelle che sono le nostre aspettative più segrete per riconoscere quel figlio per quello che è, un essere diverso da noi e proprio per questo così unico e meraviglioso.

Bibliografia

  1. Jesper Juul, Il bambino è competente – Ed. Feltrinelli
  2. John Gottman, Intelligenza emotiva per un figlio – Ed. Bur Saggi
  3. Isabelle Filliozat, Il quoziente emotivo – Ed. Piemme

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