Diventare famiglia

Quando si adotta, a volte tutto sembra dettato solo dai ritmi della burocrazia, dei tribunali, degli operatori, degli enti, delle leggi, dei paesi esteri. La vita si trasforma in un percorso labirintico attraverso documenti, preoccupazioni concrete, valigie e pacchi, informazioni e raccomandazioni, come se si trattasse solo di un lungo e complesso viaggio la cui meta è un figlio o una figlia. Alla fine del percorso si intravede un bambino, o una bambina, ma è come guardare attraverso un cannocchiale rovesciato e dei figli si vede solo una figuretta distante, indistinta. Dopo, quando ci si trova finalmente soli e assieme al figlio o alla figlia in carne ed ossa, si scopre che tutto quello che c’era stato prima non era la realtà.

La realtà è diversa: ha una consistenza, un sapore differenti. Il prima, le sue difficoltà, le sue tortuose tempistiche, tutto scompare come spazzato via da un vento istantaneo. Quel che resta è la piccola persona che ci troviamo davanti, perfettamente estranea a noi, ignota, leggermente incomprensibile, altro da noi e dalla vita vissuta sino a quel momento. Anche noi le siamo perfettamente estranei ed ignoti, probabilmente impauriamo, certamente siamo incomprensibili ed alieni.

Tutti i sogni e le aspettative di prima, perfino le paure e i timori che avevamo, si schiantano nell’attimo della realtà dell’incontro. Un attimo che un attimo non è, perché anche l’incontro richiede giorni e giorni. Ci si incontra ogni giorno svegliandosi e scoprendo di avere nel letto o nella stanza accanto un bambino o una bambina che la legge dicono figli, che gli amici dicono figli, ma che noi non sappiamo chi siano. E allora ogni mattina è un incontro. Ogni pomeriggio ci si stupisce di quel che succede e talvolta non si riesce nemmeno a dirlo a chi ci sta vicino. Come spiegare che non lo si era immaginato così? Che ci si era aspettata più tenerezza in questa figlia, più voglia di esserci, di imporsi, non certo questa esilità che potrebbe farla sparire da un momento all’altro, non certo questo silenzio, quest’immobilità. Che ci si era aspettato un figlio forte e reattivo, irruente e magari aggressivo e caparbio, non certo questo bambino che dove lo metti sta, che sorride a tutti e non sceglie te. Te che sei una mamma passionale e che invece ti senti come congelata, tu stessa imprigionata dalla rete di fili invisibili che questo figlio si tesse attorno.

Come dire ad amiche e parenti che proprio non lo sopporti, questo bambino che al minimo “no” scatta, che decide sempre di testa sua, che se non corre da una parte corre da un’altra?
Come rivelare che volevi un figlio e non t’eri immaginata gli strilli, i capricci, le urla, i pianti, le impuntature? Ridicolo. Ci si sente soli e veramente un po’ ridicoli, dopo tutti i libri letti, i percorsi fatti, i pensieri sviscerati.
Come dire che questi figli non ce li si sente per niente presenti? Non sono come ce li si era aspettati. Sono più difficili, ma in modo strano, perché sono difficili delle difficoltà che non ci si aspettava.

Pronti come eravamo a bambini reattivi e oppositivi, ci ritroviamo con una figlia impermeabile ai nostri tentativi di avvicinamento e per tutti gli altri estremamente facile. Certi delle nostre capacità di affrontare un figlio di sette/otto anni con l’arma della pazienza, del ragionamento e della fermezza, scopriamo di faticare davvero con un figlio che quando si oppone si oppone sul serio (in silenzio o urlando non importa) per ore di seguito.

Eravamo pronti a cosa? A un’idea, probabilmente. La realtà è altra cosa. E ci vuole tempo, sì certo, ma ci vogliono anche impegno e ripensamento, e azione e attesa al tempo stesso. Abbiamo bisogno di viverlo in pieno questo primo periodo in cui abbiamo accanto un figlio non ancora figlio e noi viviamo nell’incertezza di non sapere quale sia il posto che rivestiamo nel suo piccolo mondo.

Anna Guerrieri per Genitoriche

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