Tra i luoghi comuni più diffusi che rendono ancora più difficile l’occupazione femminile nel nostro paese, ci sono quelli legati ai costi economici che graverebbero sui datori di lavoro, quando una dipendente va in maternità.
La gravidanza e il periodo immediatamente successivo sono considerati generalmente periodi difficili per l’azienda in cui la neomamma lavora, onerosi dal punto di vista economico e organizzativo.
È opinione diffusa, infatti, che le leggi di tutela della maternità vigenti siano molto garantiste per la madre e non tengano sufficientemente in conto le necessità aziendali. Non a caso, infatti, l’Italia è fanalino di coda per quanto riguarda l’occupazione femminile e molto lontana dagli obiettivi europei di Lisbona (60% entro il 2010), con il tasso di natalità di 1,3 figli per coppia.
Di fronte a questo dato è difficile pensare che le organizzazioni non siano in grado di reggere economicamente l’assenza per maternità di una propria collaboratrice, considerando che statisticamente questo accade molto raramente. Eppure i dati indicano che nel 2007 il 42,3% delle imprese prevedeva di assumere in preferenza uomini, il 18,2% donne e il 39,5% era indifferente. Ciò indica come ancora generi forte diffidenza l’assunzione di una donna “a rischio” maternità.
Per analizzare, dunque, questi radicati stereotipi è stata realizzata un’interessante ricerca condotta dal Laboratorio Armonia – Osservatorio sul Diversity Management della Sda Bocconi su maternità e costi aziendali, di cui sono stati presentati i primi risultati.
La ricerca si è basata sulla somministrazione di un questionario ad aziende, manager di risorse umane e alle madri, per analizzare il peso che hanno per ciascuna figura professionale, gli elementi considerati più limitanti per l’occupazione femminile:
– i costi vivi della maternità, dovuti alla dipendente dal datore di lavoro, che comportano una spesa;
– i costi riferibili a sostituzioni, riorganizzazione del lavoro, aggiornamento della dipendente al rientro, incertezze circa i tempi e la durata delle astensioni, che pur non comportando un esborso economico, vengono percepiti come estremamente importanti in quanto implicano un significativo sforzo gestionale per l’azienda.
Lo studio ha consentito dunque di sfatare il primo stereotipo radicato, ossia il costo economico della maternità, calcolando che questo è pari allo 0,016 per cento del fatturato aziendale (sempre che l’azienda decida di integrare lo stipendio della lavoratrice in maternità di cui l’80% è a carico dello Stato), una cifra irrisoria, ininfluente paragonata ad altre spese che sostiene l’azienda annualmente.
La ricerca ha dimostrato che, se per la donna il costo maggiore legato alla sua maternità è quello “vivo” dovuto al calo della retribuzione e alle spese necessarie per servizi che le consentano di lavorare, per i datori di lavoro e per chi gestisce le risorse umane il “costo” più pesante è quello attribuito alle difficoltà di pianificazione e di organizzazione nel periodo in cui la donna si asterrà dal lavoro, al suo reintegro e al suo aggiornamento.
Questi disagi, però, potrebbero essere minimizzati, dando spazio a servizi e modalità organizzative più flessibili, quali il part-time, il telelavoro, programmi di couching per accompagnare il rientro, l’invio di materiale informativo per mantenere vivo il rapporto durante la maternità, colloqui per verificare l’interesse della neomamma a essere coinvolta già prima del rientro, convenzioni con asili nido o agenzie di babysitting per alleviare il costo sociale della maternità.
Non meno importante è la creazione di una relazione basata sulla fiducia, sulla stima e il rispetto tra azienda e dipendente, che consenta alla donna di negoziare e pianificare la propria maternità tenendo conto anche delle esigenze aziendali, grazie ad un clima non ostile o pregiudiziale, ma rispettoso delle sue necessità.
Per quanto riguarda invece l’eccesso di garanzie attribuito alla nostra legislazione in materia di congedi di maternità e parentali, considerata eccessivamente generosa e penalizzante sia per le lavoratrici che per i datori di lavoro, e quindi non a favore di un’occupazione femminile ampia e di qualità, lo studio fornisce qualche chiarimento importante. Il primo è che ci sono paesi con normative più tutelanti della nostra, come l’Olanda e l’Austria, che registrano tassi di occupazione femminile ben più alti, dimostrando quindi che non è la “generosità” della legge a costituire un deterrente all’occupazione, ma è vero il contrario. Dove la donna è ampiamente tutelata, la sua partecipazione al mercato del lavoro è più elevata e anche di migliore qualità.
Altro stereotipo da sfatare è che ad un maggior impegno della donna nel mondo del lavoro si leghi un decremento delle nascite. Anche questo non è più vero: almeno dagli anni ’80 i paesi che hanno fatto registrare un aumento dell’occupazione femminile, adottando politiche adeguate, hanno anche aumentato il tasso di natalità. Mentre l’Italia è ancora agli ultimi posti, sia come occupazione che come incremento demografico.
È importante quindi diffondere informazioni corrette sui costi sociali ed economici delle maternità e rifondare i sistemi organizzativi del mondo del lavoro, secondo modelli più vantaggiosi per tutti.
Per approfondire
Fabio Todesco, 0,016%, il costo della maternità per le imprese
Adele Mapelli, Maternità e imprese: anche lo 0,016 del fatturato può fare paura
Rita Querzè, La maternità? Costa meno del ticket. Corriere della Sera 19 giugno 2009
Osservatorio Armonia della Università Bocconi
L’Osservatorio sul Diversity Management è un network di aziende che hanno nella loro missione la gestione delle diversità: di genere, fasi del ciclo di vita, cultura, abilità.
L’Osservatorio si distingue dal panorama italiano e internazionale per la costante partnership con le aziende a cui si rivolge e per la promozione e divulgazione di un dibattito sui temi della diversità basato su rigorose metodologie di ricerca.