AUTORE: Valeria Palano
L’Autolesionismo … mi accingo a parlare di questo argomento con una certa cautela, perché riconosco quanto sia complesso trattare una questione così delicata, rendendo giustizia del mondo che c’è dietro, ovvero il mondo dei ragazzi adolescenti e preadolescenti che lo vivono sulla loro “pelle”.
Potrei approcciarmi a questa “patologia” in modo scientifico, parlano di numeri, definizioni, eziologia, comorbilità e me la caverei egregiamente, fornendo informazioni che comunque potrebbero essere reperite attraverso la lettura di articoli accademici, scritti da autori e ricercatori di fama nazionale e internazionale. Tuttavia, pur non prescindendo da informazioni tecniche, in questo articolo vorrei pormi un altro obiettivo: ossia parlare di questo comportamento presentandolo come “IL mezzo” usato da alcuni ragazzi per uno scopo ben preciso. Vorrei far riflettere sul “perché” un essere umano decide di infliggersi delle lesioni e vorrei suggerire “cosa” fare per aiutarlo.
Prima di addentrarci nella mente e nel cuore di un “cutter”, così si definiscono alcuni ragazzi per delineare ed affermare la propria identità, cerchiamo di acquisire dei dati. Immaginiamo, quindi, di apprestarci ad intraprendere un viaggio in un Paese di cui non conosciamo la lingua, il clima, le abitudini, gli usi, i costumi e di decidere di andare su un motore di ricerca per raccapezzarci qualcosa e non partire completamente sprovvisti almeno dell’equipaggiamento di base; nel nostro caso, ci rivolgeremo ad uno specialista e gli chiederemo di darci qualche informazione sull’Autolesionismo.
Innanzitutto, il nostro “tecnico” ci correggerà e, per definire questa condotta, userà l’acronimo NSSI (Non-Suicidal Self-Injury) spiegandoci che si tratta “dell’atto deliberato e diretto messo in atto da una persona per ferire, danneggiare o alterare i tessuti del proprio corpo senza che vi sia un intento suicidario cosciente”; poi ci spiegherà che questa definizione, fatta nel momento in cui questa condotta è stata inserita all’interno del DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), è importante, perché dà all’Autolesionismo una dimensione a Sé rispetto ai Comportamenti Suicidari o ad altri quadri clinici in cui tale condotta rappresenta un aspetto sintomatologico, come ad esempio il Disturbo Borderline di Personalità, la Schizofrenia, la Depressione Maggiore, il Disturbo Post-Traumatico da Stress, i Disturbi Dissociativi, i Disturbi Alimentari e l’Abuso di sostanze o di alcol.
Andando avanti nella sua spiegazione, il nostro esperto continuerà dicendo che, affinché si possa parlare di Autolesionismo, senza confonderlo con un evento occasionale, devono essere soddisfatti alcuni criteri: innanzitutto, la frequenza, perché è necessario che si siano verificati cinque o più episodi nell’arco di un anno; poi la messa in atto del comportamento in presenza di pensieri o sentimenti negativi ricorrenti (es. di rabbia e/o di autosvalutazione); inoltre, l’incapacità di resistere al crescente senso di tensione e al forte desiderio di ferirsi per la ricerca di sollievo e benessere; alla fine, il senso di disagio e vergogna per i segni inflitti e il tentativo di nasconderli agli occhi degli altri.
Con un fare apparentemente disinvolto, l’esperto a cui ci siamo rivolti, ci spiegherà che i ragazzi utilizzano gli strumenti e le modalità più disparete per ledere il loro corpo e, con la razionalità di uno scienziato, ci elencherà una serie di nomi: cutting (tagliarsi la pelle con lamette, forbici, coltelli o altri strumenti, biting (mordere parti del corpo), burning (bruciarsi con sigarette, accendini, fiammiferi…), scratching (procurarsi dei graffi sul corpo), interference with wound healing (interferire con il processo di cicatrizzazione delle ferite sul corpo), carving (incidersi la pelle al fine di procurarsi cicatrici permanenti)…ma per evitare che la sua descrizione diventi troppo “splatter” forse tralascerà il fatto che anche gli elenchi più accurati non rendono completezza di quanti altri modi e strumenti esistono, come ad esempio: sbattere la testa contro il muro, fratturarsi le ossa, darsi pugni, strapparsi capelli, le sopracciglia o peli della zona pelvica, mangiarsi o strapparsi le unghie…
A questo punto, anche per riprendere un po’ di contegno personale, il professionista tornerà sui numeri e ci dirà che gli adolescenti dichiarano di mettere in atto condotte autolesive per: (il 42%) ridurre l’ansia, la frustrazione, la rabbia o altre emozioni opprimenti, (il 36%) calmarsi, (il 32%) alleviare il disagio psicologico interno, (il 25%) punirsi, (il 19%) lasciare un segno che possa esprimere il loro malessere, (il 15%) cercare di sentire qualcosa a livello emotivo oppure evitare l’impulso del suicidio.
Da questo momento, più o meno soddisfatti del vademecum che ci è stato fornito, dobbiamo abbandonare l’atteggiamento scientifico e razionale della nostra guida e cominciare ad ascoltare il mondo interno dei ragazzi che mettono in atto queste condotte. Penso sia importante mettere in campo tutta l’empatia a disposizione, allontanandoci dalle nostre emozioni di paura e sgomento e cercando di “sentire” le emozioni del ragazzo o della ragazza che ci sta di fronte e ci sta raccontando il suo disagio, sia esso un figlio, un nipote, un allievo, un paziente, un amico di un amico o quant’altro. Ricordatevi che questo comportamento non ha sesso, perché è diffuso sia tra i ragazzi che tra le ragazze e sta avendo un esordio sempre più anticipato, intorno agli 11-12 anni.
Tralasciando la voglia di dissuadere il ragazzo dal suo gesto con frasi del tipo “così ti fai solo del male…cerca di smettere”, o ancora peggio di intervenire con azioni di controllo, non permettendogli di stare in bagno ed eliminando da casa tutti i coltelli e le lamette a disposizione; proporrei di instaurare con lui un dialogo, il cui intento è solo quello di capire.
Nei limiti del possibile, senza rischiare di fare un interrogatorio, ponete alcune di queste domande: da quanto tempo lo fai? quand’è stata la prima volta che lo hai fatto? cosa hai provato la prima volta e cosa provi adesso? oggi con quale frequenza lo fai? con il tempo hai cambiato modalità? ne hai parlato con qualcuno? vorresti che io la facessi? (Garantire il vostro riserbo e la vostra fiducia e spiegategli che sarete costretti a infrangere il vostro segreto solo se la sua condotta metterà seriamente in pericolo la sua incolumità), ti piacerebbe smettere? hai mai messo in atto azioni alternative? pensi che ci potresti provare? eventualmente, ti andrebbe se provassimo insieme ad individuarle?
Il ragazzo che ha deciso di confidarsi con voi vi ha aperto il suo mondo e per lui non è stato facile, entrate con garbo e con cautela, come si fa quando si è ospiti a casa di qualcuno. Fatelo sentire ascoltato e fategli capire che siete sinceramente interessanti a quello che vi sta dicendo. Il più delle volte non ne ha mai parlato con nessuno e se lo ha fatto è stato con qualche coetaneo. Attraverso il suo racconto verbalizzerà la funzione che ha per lui il taglio e con voi cercherà strategie alternative più adattive. Aiutatelo e discriminare, riconoscere, verbalizzare, modulare, regolare quello che sente in modo più funzionale. Attraverso l’ascolto, anche voi capirete meglio l’entità del suo malessere.
L’ultima domanda che farete, se ancora non lo avete capito da soli, è: perché lo fai?
Lui, vi guarderà con uno sguardo confuso e cercherà di farvi capire che attraverso quel taglio cerca di alleviare le sue inquietudini e le sue angosce. Il taglio è un modo per dare un segno visibile a un dolore che gli altri non riescono a vedere e che lui non riesce a controllare. Il male fisico ottunde il male interiore e diventa un modo per prendersi cura di Sé, perché spesso il gesto di autolesionismo è connotato da un rituale fatto di preparativi e disinfettazione. Nei casi più gravi questo gesto serve ad offuscare il desiderio di farla finita e di suicidarsi, diventano un modo per mantenere integro il proprio di Sé di fronte a stati emotivi travolgenti.
Il corpo diventa lo strumento che il ragazzo usa come confine tra Sé e il Mondo, tra l’Interno e l’Esterno, tra il Dolore e il Benessere, tra il “Sentire” e “Non sentire”. Il taglio incide la pelle, quella sottile membrana che unisce e al contempo separa, che stabilisce o rompe i confini con gli Altri.
A volte il ragazzo che si procura dei tagli viene da un ambiente fisicamente e psicologicamente abusante, altre volte da esperienze di vita traumatizzanti, altre ancora da episodi di bullismo, ma in altri casi proviene da famiglie “normali” e la sua esperienza di autolesionismo nasce per emulazione, perché ha visto o sentito altri suoi compagni farlo; in nessuna circostanza è il caso di usare la frase “lo fa solo per attirare l’attenzione”, perché chi fa un gesto di questa portata, poco gli importa di essere notato, piuttosto vuole essere visto, ed evidentemente di quelle “attenzioni” ne ha veramente bisogno.
Il nostro tecnico, con voce calma, sintetizzerebbe tutte queste parole dicendo che il ragazzo si taglia perché ha difficoltà a regolare le proprie emozioni, così usa una strategia di coping disadattiva basata su un condizionamento negativo; la mia paziente Cristina risponderebbe dicendo “Io mica sono una radio che devo essere regolata!”, ma in fondo, sa che quel tecnico, a modo suo, ha spiegato qualcosa che a volte lei stessa fa fatica a far capire.
L’autrice dell’articolo è Valeria Palano, Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale.
Della stessa autrice puoi seguire il “Dialogo sull’adolescenza” a questo link.
One Reply to “Perché lo fai?”
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