Autrice: Erika Delvento, picologa, psicoterapeuta.
Quando incontro Aurora ha gli occhi chiusi. Come bella Addormentata è seduta sulla sua carrozza, forse in attesa del bacio di un amore vero. Così mi accoglie per la prima volta. E la seconda. E molte altre a seguire.
Io, ultima arrivata in questo nuovo mondo, porto insieme alla maestra un’idea di scuola take away, a domicilio. Lanciata nell’ignoto mi muovo un po’ impacciata soprattutto davanti allo sforzo di chi la conosce di mantenerla vigile e sveglia con voci alte, versi con la bocca, giocattoli che suonano e battiti di mani. Mi sento così non solo poco desiderata, ma anche la fonte di un disturbo che va oltre il necessario straniamento di un nuovo ingresso facendomi sentire, con la mia voce flebile, ancora più inadeguata a fronte di una performance attesa.
Aurora, così comprendo ancora meglio, ha un grande potere nel suo sguardo, non solo quello di dire sì, ma anche quello di dire no. Non voglio. Non ti voglio. Anche Jean, il fratello piccolo che incontro spesso i primi tempi, non perde occasione per ricordare: “Con la maestra ride, con te no!“. Ma per fortuna, già Hellen mi aveva allenato a fare i conti con le puntate al cuore da cecchino, anche se, alla fine, il proprio cuore, per fortuna, non lo si smette mai di conoscere. È sempre più vasto.
Io mi faccio tempio di quel tempo trascorso insieme al quale cerco di dare un senso che tenga insieme la mia funzione non potendo contare sulla presenza di compagni, sull’assegnazione di compiti, su materiale didattico già pronto, sulla possibilità di lavorare sull’autonomia se non quella comunicativa. È come dover re-imparare da capo a trovare un nuovo modo per camminare, costruire una relazione e una nuova forma di scambio. Forse cose che Aurora ha o sta provando e la sua famiglia con lei. Conoscersi e riconoscersi, di nuovo.
Mi sento come un pesce, ma fuori d’acqua. Annaspo a lungo per imparare a disimparare e a riparare di nuovo, ma insieme. Cambio da una parte il ritmo. Da una parte si fa più lento, dall’altra avverto la pressione del dover non perderlo quel tempo, di dover fare in fretta. Ogni volta è un “Cosa farò“? Come lo riempiremo quello spazio?
Cerco ispirazioni fuori e dentro di me. Soprattutto fuori. I bazar dei gestori cinesi sono spesso un’àncora di salvezza con la quale riempio la borsa che porto con me dalla quale estrarre all’occorrenza palline, colori, libri a piacere come una inesperta Mary Poppins.
Tutta questa necessità di programmare serve a me, più che a Aurora, in realtà. Serve a farmi sentire meno impacciata. E, forse, anche a farlo vedere meno agli altri intorno.
Ripenso oggi con tenerezza a quei giorni di sbuffi, ronfate e osservazioni incalzate da un “Che ci faccio qui?“. Un prendere le misure nella quali non potevo chiedere, non potevo dire troppo, ma stare come all’angolo e imparare, piano piano, a improvvisare partendo dal piccolo, dal sempre più piccolo dentro il quale rintracciare costellazioni di sapere, scoprendo come tra le pieghe di un cuscino o di un lenzuolo si possano nascondere briciole alle quali aggrapparsi per iniziare o continuare a costruire possibilità.
Ti guardo adesso, mentre dormi come da tanto non accade più. E ripenso ai nostri inizi, a quanta strada abbiamo fatto, l’una verso l’altra. “È cambiata tanto.”, dice zia. “Anche io.”, le rispondo. Nel migliore dei casi succede. Così, come credo sia successo a noi.
Incontro Aurora da più di un anno nel mio lavoro quotidiano come operatrice educativa scolastica, figura che collabora con l’insegnante di sostegno. Da quando la incontro non ho mai smesso di dover incontrare anche me.