È peggio negro o ciccione?

Quando si parla di razzismo ci vengono in mente le immagini eclatanti dell’apartheid sudafricano, del KKK della Louisiana. Chi infatti definirebbe un episodio razzista una litigata tra bambini di otto anni, a scuola, che si insultano a suon di “negro bastardo”? “I bambini sono bambini”. “Si sa che sono crudeli”. “Anche mio figlio per prenderlo in giro, spesso lo chiamano ciccione”. “E anche il mio lo sento chiamare spesso dumbo”. “Sono sciocchezze di bambini: non ci si deve fare caso”.

È indiscutibile il fatto che un insulto provochi comunque sofferenza in chi lo riceve, specialmente se si è bambini e a insultare sono i compagni. Ma un insulto vale l’altro? Mal comune mezzo gaudio? Urlare “brutto negro” è come urlare “brutto ciccione”?

No, non lo è. Offendere qualcuno perché è grasso o ha le orecchie a sventola, o parla con la erre moscia, non è razzismo. E non lo è perché non se ne fa una questione di “razza”, di “etnia” – per dirla con un termine politicamente, apparentemente, più corretto, ma non meno subdolo – non se ne fa una questione di gruppo, di livelli di umanità.

 

Gli insulti che prendono di mira, anche in maniera aggressiva, particolari fisici che nell’immaginario collettivo sono considerati “difetti” (orecchie distanti dalla testa, naso molto grande, dentatura non allineata, difficoltà di pronuncia…) colpiscono, ci si passi il termine psico-scorretto, una parte corticale che contribuisce alla costruzione dell’identità del bambino, ma non ne costituisce la sostanza. Così il bambino deriso imputerà ai suoi denti storti la sua sofferenza, come “parte sbagliata” di sé. Ma ciò avrà un impatto limitato nell’articolazione della sua identità personale, limitato appunto a una parte di sé.

Al contrario, il bambino vittima di insulti razzisti è colpito nel profondo della sua identità di individuo, privata di caratteristiche peculiari, di particolari “solo suoi”; anzi, talmente poco definita da essere un tutt’uno con quella di un gruppo. Di più: in “brutto negro” non è offensivo l’utilizzo di un termine considerato poco corretto (negro) al posto di un altro ritenuto più morbido (nero, di colore…). È offensivo – razzista – perché si basa sull’idea, diffusa e pervicacemente salda, che essere neri sia essere inferiori.

È come dire “frocio”, o “troia”, o “mongoloide” per esprimere il disprezzo, ritenendo che siano da disprezzare tutti, indistintamente, coloro che sono neri, omosessuali, donne, portatori di handicap, per il semplice fatto che sono, appunto, neri, omosessuali, donne, portatori di handicap; a prescindere da qualunque altro aspetto della loro personalità; e, fatto ancor più grave, dimenticando che non si tratta di difetti, né tantomeno di crimini!

È, in buona sostanza, non riconoscere a un individuo la sua legittimità di stare al mondo. È come dirgli: tu non sarai mai come dovresti essere (bianco, etero, maschio, sano), come è “giusto” essere. Tu sarai per sempre “sbagliato”.
Il razzismo è, insomma, espressione di rapporti di potere, in cui chi ha di più – in termini economici, sociali, di prestigio, di mezzi di controllo eccetera – sottolinea, con una serie di motivazioni pretestuose, la differenza, da intendersi sempre come mancanza.

Due parole vorremmo spendere per stimolare l’attenzione a far sì che non si cada in un frequente equivoco, innanzitutto terminologico. Ovvero, il razzismo non si vince con latolleranza, sostantivo che significa sopportazione, né con l’integrazione, termine che implica un difetto da colmare, da integrare appunto.

Il razzismo si vince con il rispetto, con l’esercizio quotidiano del contatto; con il chiedere e spiegare; con il gioco dei ruoli interscambiati. Si vince non solo “insegnando” ai bambini l’uguaglianza, ma avendo noi genitori per primi la coerenza di aprire le nostre abitudini alla scoperta, nel paziente, continuo esercizio della consapevolezza che il mondo ha la forma di una sfera, in cui tutti i punti sono ugualmente distanti dal centro, e non di una piramide in cui qualcuno è più “in alto” di altri.

È per questo che gli episodi di razzismo, seppur apparentemente innocui e circoscritti nel tempo, non vanno mai relativizzati o minimizzati, neppure se assumono la forma di scaramuccia tra bambini.

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